Uscita del 16/06/19
Finalmente le cinque e trenta, non ce la facevo più ad aspettare le cinque e trenta, seduto, in piedi, un giro attorno al tavolo e di nuovo seduto, ma poi d’un tratto i miei cani iniziarono ad abbaiare. Non era un abbaiare forte come a uno sconosciuto, ma era un abbaiare soffuso, come a dirmi: “Hei! Esci c’è una sorpresa per te!”. Sul portoncino di casa c’era Roberto sorridente, i miei tre cani seduti di fronte a lui sembravano implorarlo che mi convincesse a portarli con noi. Niente da fare, questa volta nessuno dei tre pelosi sarebbe venuto con noi e non sarebbero riusciti a convincermi nemmeno se mi guardavano con gli occhioni languidi. A testa bassa uno dietro l’altro si indirizzarono verso le rispettive cucce, girandosi di tanto in tanto con le orecchie basse sperando così facendo di impietosirmi. Caricati gli zaini e saliti in auto, senza perdere tempo ci siamo diretti verso Maniago, poi Barcis, Cimolais e il passo Sant’ Osvaldo, attraversando poi Erto, qui abbiamo preso la direzione a sinistra per Pineda passando molto vicino alla frana della vergogna. Attraversato anche Liròn, siamo arrivati a Prada punto di partenza della nostra escursione. Il nostro punto di partenza era proseguire alle spalle di un segnale di divieto d’accesso alle auto, su stradina asfaltata e in leggera salita abbiamo dato inizio alla nostra avventura, inoltrandoci tra alberi da frutto e prati stabili passando tra belle casette tenute con cura. Alla nostra sinistra un recinto con tre bei cavalli da tiro, un maschio, una femmina e un puledro, con la testa bassa intenti a brucare l’erba, al nostro passaggio di scatto e in simultanea alzarono la testa smettendo di mangiare, come a dire: vi abbiamo visto! Attorno a noi, un po’ più in alto lo Zerten con la sua mole severa ci osservava, alla sua sinistra anche il Toc e cima Mora ci osservavano, dietro di noi il Borgà, la Palazza, il monte Zita, il Porgeit, il Lodina, tutte ci stavano osservavano. La sensazione era quella di sentirsi piccoli piccoli di fronte a cotanta grandezza. Io e Roberto procedevamo in silenzio, immersi nei nostri pensieri o forse immersi nella gioia di essere lì in quel preciso punto in quell’attimo, di fronte a Madre Natura in tutto il suo splendore. Sembrava di sentire un chiacchiericcio in lontananza, ma bastava mettersi in ascolto per comprendere da dove proveniva, alle nostre spalle le tre sorelle il borgà la Palazza e il monte Zita, stavano litigando, tutte e tre volevano essere salite da noi, il Borgà essendo la più grande faceva la voce grossa, la Palazza si vantava per la sua ripida rampa finale, il monte Zita invece essendo la più piccola con voce dolce diceva alle sorelle maggiori: tanto saliranno me perché sono la più lontana e selvaggia. Alla nostra destra anche il monte Toc e cima Mora iniziarono a bisticciare per averci in cima, il loro era un bisticciare composto, quasi una discussione tra anziani in un’osteria di fronte a un bicchiere di rosso, cima Mora sapeva che al Toc mancavano parte dei piedi, quindi non poteva alzare troppo la voce, in cuor suo gli faceva pena. In fondo alla val Zemola il maestoso Duranno osservava questo chiacchiericcio in silenzio, finche ne ebbe abbastanza, gli basto abbassare le ciglia nascondendo parte della sua cima per assumere uno sguardo severo e autoritario. Nella valle regnò di nuovo il silenzio. La stradina da asfaltata diventò lastricata, poi di cemento e finalmente sterrata, la stradina portava a svoltare a destra guadando un piccolo ruscello, ma noi abbiamo preso a sinistra non attraversando il ruscello, passando una sbarra con divieto di accesso. Continuando a salire piacevolmente la carareccia, abbiamo seguito l’indicazione “par ochì” per poi passare alla sinistra di una pietra con su scritta una frase molto interessante e dolce: “ L’artigiano è quell’uomo che trasforma con le mani la materia in sentimento”. Probabilmente l’autrice era una donna che incoraggiava il suo amato e chi meglio di una Donna può aiutare un maschio ad avere fiducia in se stesso, ah le donne questi fiori sconosciuti. In breve tempo eravamo nel bel pianoro dove sorgeva la casera Col di Cuare. Alle spalle della casera partiva divincolandosi tra gli alberi e tra vecchi ruderi, quello che restava di una vecchia mulattiera che ben presto si sarebbe trasformata in sentiero, la pendenza iniziava ad aumentare, in qualche punto il sentiero diventava sconnesso, però in compenso raramente ma neanche troppo, tra gli alberi si apriva una bella visuale su Erto, Caso e la val Zemola, bastava questa visuale per ripagarci della fatica fatta fino in quel punto, noi però eravamo lì per un altro motivo, quindi dopo delle brevissime soste abbassavamo la testa e ricominciavamo a salire. Dopo un bel traverso siamo passati sotto a delle imponenti pareti rocciose per poi sbucare alla base di un canalino. Risalito metà canale, abbiamo intravisto un bollo rosso su un larice, dietro il larice una grande roccia divideva il canale in due, noi siamo saliti a destra per gradoni erbosi misti a roccette, la pendenza dell’ultimo tratto era accentuata ma ormai sapevamo o speravamo che la cima fosse vicina. In fatti in breve tempo siamo arrivati in cresta, prima di raggiungere il famoso tronco di vetta ci siamo divertiti a oltrepassare grandi blocchi di pietra simili ai libri di san Daniele del monte Borgà. Giunti al tronco di vetta la prima cosa che abbiamo fatto era cercare il barattolo contenente il libricino delle firme, sapevamo contenesse la firma di uno dei più grandi alpinisti italiani. Avevo tra le mani un libricino con la firma e la dedica di Riccardo Cassin, provavo un emozione strana forse come i ragazzi in prima fila a un concerto che sbraitano e urlano verso i loro idoli, sentivo l’euforia impadronirsi di me. Io e Roberto continuavamo a guardarci attorno, le Signore imbellettate con in dosso il loro vestito estivo color verde brillante, stavano rapendo il nostro sguardo, eravamo estasiati e silenziosi, solo il vento si permetteva di dire la sua, ma chi se non lui ne aveva diritto in quell’attimo. Ci siamo ritrovati seduti, tutti e due con lo sguardo verso la vallata, la frana, la diga e Longarone, sono convinto che nello stesso istante anche Roberto si chiedeva PERCHE’…
Una lunga pausa per poi ridiscendere di qualche metro e attraversare tutto il ripido pendio fino a una forcella, da questa a sinistra e ad occhio zigzagando per tagliare il pendio, siamo arrivati sulla cima dell’ Ardotto. Tra i sassi di un piccolo omino abbiamo trovato un vasetto con dei fogli, l’ultima firma era datata 2016. Peccato ci siamo detti io e Roberto, d’accordo che era una cima di qualche metro più bassa dello Zerten ma snobbarla così non ci sembrava il caso. Quindi chi d’ora in avanti salirà sullo Zerten dedichi un attimo anche all’Ardotto, l’escursionista che lo farà verrà ampliamente ripagato panoramicamente. Dopo i dovuti giri a trecentosessanta gradi, abbiamo ripreso la strada del ritorno, ci sentivamo felici come i sette nani dopo una giornata di lavoro, anzi se ci mettevamo a fischiare potevamo essere scambiati per loro. Velocemente perdevamo quota, il sole splendeva in alto emanando un intenso calore, questo per la gioia dei fiori e piante, che in cambio sprigionavano un intenso profumo inebriante di poesia e di ricordi. Un’ altra avventura stava arrivando al termine, un’altra giornata stava per finire, non prima però di un risciacquo nel gelido ruscello alla base dello Zerten e un paio di birre all’agriturismo del Passo Sant’Osvaldo. Usciti dal locale ci vennero incontro tre donne, erano completamente prese dalle loro chiacchiere, una cercava di far prevalere la sua ragione sull’altra. A me e Roberto sembrava di aver già vissuto qualcosa di simile qualche ora prima, a guardarle bene erano sicuramente tre sorelle. Quando ci furono a fianco la più anziana, con occhi vitrei ci disse: a ecco, i due che oggi sono saliti sullo Zerten . Al che io e Roberto ci siamo guardati increduli e…
Cartina Tabacco 021
Redatto con cura da Ivan Ursella
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