La cima dei Pecoli era uscita dopo una lunga serie di messaggi scambiati con Roberto, non sapevamo dove andare e a ogni messaggio usciva una cima nuova. Uno di noi scriveva: andiamo sul Col Nudo, l’altro rispondeva: e perché no sul Leupa, l’altro scriveva e perché no il Crep Nudo? La situazione incominciava a diventare comica e per l’ennesima volta avevo la riprova di quanto meravigliosa fosse la nostra regione, i messaggi andarono avanti ancora per un po’, poi alla fine spuntò il messaggio con su scritto: andiamo su Cima dei Pecoli. Sarà probabilmente stato per il suono provocato dalla pronuncia di “ Pecoli”, sta di fatto che finalmente eravamo tutti d’accordo, l’indomani saremmo saliti sulla Cima dei Pecoli. Alle cinque in punto eravamo già seduti in auto, io, Roberto e Dino alla volta della Val Cimoliana. Giunti a Cimolais svoltavamo a destra inoltrandoci nella valle e dopo qualche chilometro, incontravamo le prime devastazioni dovute al mal tempo, migliaia di alberi a terra sui versanti dei monti, con le radici rivolte verso l’alto stavano a indicare la sofferenza e ci mostravano inequivocabilmente la forza della natura che non si ferma davanti a niente. Procedendo lentamente a causa del fondo stradale praticamente ridotto a una pista di grossolana ghiaia, siamo arrivati nel parcheggio del rifugio Pordenone. Anche in questo punto, lo spettacolo non era dei migliori, strada pressochè inesistente cumuli di ghiaia portati dall’acqua da tutti i lati, enormi buche, ma la cosa che più dava nell’occhio, erano le centinaia di metri cubi di ghiaia portata giù nei canaloni, era davvero impressionante! Dal parcheggio abbiamo preso il sentiero cai 361 attraversando la bellissima piana di Meluzzo e la sua casera, a un primo bivio abbiamo continuato a sinistra seguendo la nostra segnaletica, qui siamo entrati nel letto di un torrente e guidati dai segni bianchi e rossi e dagli omini lo abbiamo risalito per un bel tratto. Gli omini erano stati posizionati per agevolare il passaggio degli escursionisti tra le buche e gli enormi massi portati a valle dalla forza dell’acqua. In certi punti l’enorme quantità di ghiaia portata a valle dai ripidi canaloni, aveva invaso l’alveo del torrente fermandosi sulla sonda opposta. Il nostro procedere era un continuo saliscendi su questa enormità di ghiaia portata a valle dall’impetuosità dell’acqua. “Se una persona non vede con i propri occhi questa devastazione, sarà difficile che riesca a immaginare quello che è successo là dentro in qualche manciata di minuti”. Senza accorgercene, probabilmente per via delle nostre chiacchiere o della distrazione, dote prettamente maschile, eravamo arrivati alla piccola e simpatica casera dei Pecoli o Caseruta dai Pechi come la chiamano i locali, si trattava di una piccola casetta in tronchi senza porte e finestre che comunque offre, in caso di bisogno, un ottimo riparo. Dopo una piccola sosta soprattutto per contemplare le Signore attorno a noi che si stagliavano verso l’alto nel cielo blu cobalto, ripartivamo inoltrandoci nel bosco abbandonando il nostro sentiero seguito fino ad adesso, per prendere a sinistra il sentiero numero 359, questa volta con pendenza più marcata. Ad ogni passo ci avvicinavamo sempre più alla nostra meta, ma soprattutto prendevamo quota e i colori iniziavano a cambiare, per esempio il verde era più brillante, le rocce e i ghiaioni attorno erano più candidi. In alto sopra di noi, da una spaccatura nella parete rocciosa, usciva una piccola cascatella che cadendo si infrangeva su una roccia sottostante provocando una pioggia di centinaia di goccioline a terra rendendo scivoloso e molto bagnato il sentiero. Continuando a salire rasentando le rocce alla nostra destra, eravamo entrati nella valle dei Monfalcon di Forni, lo spettacolo che si apriva ai nostri occhi era davvero unico, tanto che procedevamo in religioso silenzio tutti e tre rapiti dalle pareti e guglie che si slanciavano verso l’alto. Ogni guglia che si elevava verso l’alto sembrava che volesse scrivere la sua antica storia nel blu del cielo. Facendo attenzione a non inciampare sui nostri passi, colpa di un proseguire con il naso all’insù, eravamo arrivati nei pressi di due laghetti, se proseguivamo seguendo il sentiero saremmo arrivati al bivacco Marchi Granzotto. Noi però avevamo scelto di abbandonare il sentiero salendo un canalone sdrucciolevole a destra, davanti a noi su in alto ci stava osservando il Porton di Monfalcon, un po’ più a destra ci stava osservando la nostra meta, la Cima dei Pecoli. Il canalone che stavamo risalendo, terminava addosso a una fascia di mughi, oltrepassati anche quelli dovevamo risalire il tratto che si è rivelato essere il più faticoso della giornata, un ripidissimo ghiaione che ci faceva guadagnare un metro per riprendersene due. Finalmente dopo varie imprecazioni e svariate pause per riprendere fiato, siamo arrivati proprio a fianco al Porton di Monfalcon, eravamo pervasi dalla maestosità, una porta naturale che divideva in due la montagna, sembravamo tre bambini davanti a una giostra, in quell’attimo ci era passato tutto: non sentivamo più la stanchezza dovuta alla risalita del ghiaione, ma eravamo persi nel contemplare quello che ci circondava. Un rumore provocato dal movimento di ghiaie non molto lontano da noi ci fece volgere lo sguardo nella direzione di provenienza, da dietro uno spuntone roccioso comparve un escursionista solitario, si avvicinò a noi e iniziarono le presentazioni, era un signore di Buja, Flavio si chiamava ed era la settima volta che saliva la Cima dei Pecoli. Incontrare per la prima volta un paesano mio e di Roberto proprio in quel luogo sperduto e non esserci mai visti nel nostro paese, ci sembrava a tutti e tre molto strano. Abbiamo indossato i caschi e siamo partiti attraversando un’ esposta esile cengia non difficile comunque, che abbiamo abbandonato all’ altezza di un torrione sulla destra. Qui abbiamo arrampicato per roccette molto marce una specie di ripido canalino sulla sinistra, all’interno del quale, abbiamo incontrato il tipico masso incastrato da oltrepassare. Con dei brevi passaggi abbiamo superato l’ostacolo valutato poi attorno al secondo grado, usciti dal canalino, dovevamo risalire l’ultimo tratto ripido prima della cima. Tra rocce molto friabili che bastava guardare perché si staccassero e rotolassero giù a valle sul ghiaione e qualche zolla d’erba, guadagnavamo la vetta. Doverose strette di mano e pacche sulle spalle, poi ognuno perso nei suoi pensieri a guardare lontano. Flavio poi iniziò a dare un nome a tutte le cime attorno, ci disse di averle salite quasi tutte, raccontandoci svariati aneddoti, mentre parlava noi lo ascoltavamo con attenzione cercando di imprimerci nella mente almeno il nome del rispettivo monte cosa non molto facile da ricordare. Il tempo lassù passava velocemente e anche se non era una cima rinomata, eravamo fieri di averla salita. Avevamo dato un ultimo sguardo tra le cime poi eravamo ripartiti cercando il più possibile di seguire il percorso che avevamo fatto all’andata, non era molto facile, tanto che in più di qualche occasione avevamo dovuto ritornare sui nostri passi. Procedevamo uno attaccato all’altro, perché il terreno era molto friabile e così facendo non permettevamo alle pietre di prendere troppa velocità prima che andassero addosso al nostro compagno. Spesso capitava di muovere e far rotolare a valle delle pietre grandi come un frigo bar o un comodino oppure che le stesse rimanessero spezzate tra le nostre mani, la progressione era molto delicata e dovevamo cercare di essere il più leggeri possibile. Oltrepassata l’esile cengetta iniziale, eravamo sbucati a fianco del grande Porton di Monfalcon, ed eravamo attoniti dalla particolarità sua particolarità, un fantastico arco naturale che sembrava dividesse due realtà, da un lato la realtà conosciuta e dall’altro l’ignoto della curiosità. Dopo numerose foto in tutte le posizioni, venne purtroppo l’ora di scendere, raccolte le racchette che avevamo lasciato in un anfratto all’inizio della cengia ci eravamo calati nel ghiaione e senza muoverci il ghiaione stesso ci portava verso valle, Dino era il più veloce sembrava galleggiasse sulle ghiaie, di tanto in tanto come si fa con gli sci, curvava a strette svolte come se stesse facendo slalom. Divertendoci come bambini sullo scivolo e muovendo svariati metri cubi di ghiaia arrivavamo purtroppo alla fine del ghiaione e in prossimità dei laghetti che avevamo oltrepassato qualche ora prima, una nota riguardo alla pendenza è doverosa, a risalire il ghiaione ci abbiamo messo all’incirca un’ora e trenta, a scenderlo invece ci abbiamo messo quindici minuti, potete solo provare a immaginare quanto ci eravamo divertiti… (solo in discesa però, ovviamente). Le difficoltà erano finite, dovevamo solo raggiungere il rifugio Pordenone e poi il parcheggio, ma svariate ore di cammino ci dividevano da questi. Il tempo comunque volava, come volavano i gracchi sopra di noi e solamente il loro “craa.. craa” ci faceva intuire la loro presenza. Raggiungevamo finalmente l’essenzialità della casera dei Pecoli, gli zaini volarono a terra, una bella sosta era d’obbligo, in questo angolo di paradiso, una piccola casetta in una radura nel bosco contornato da alte e selvagge pareti, una panca posta di fronte a tutto ciò e noi seduti in silenzio ad ammirare. Alle volte il silenzio vale più di mille parole, parole che avrebbero senso solamente se lasciate libere di nascere e crescere tra la punta di una penna e un foglio bianco. Era il luogo ideale per far correre la fantasia tra le pagine bianche di un quaderno. Con questi pensieri che girovagavano per la mia mente, lasciavamo la bella piana per riprendere il sentiero che ci avrebbe portato al rifugio Pordenone, di nuovo su e giù per la ghiaie e finalmente entravamo nella piana di Meluzzo, pronti a risalire l’ultima rampa, l’ultima fatica della giornata prima di sederci attorno ad un tavolo a ripercorrere le emozioni vissute durante la giornata. Una dolce melodia ci accolse al rifugio Pordenone, due violinisti stavano suonando i loro strumenti davanti a molte persone in ascolto, regalando un tocco di magia alla fine della nostra escursione. Guardavo questi due musicisti con il violino tra le mani e riflettevo: in passato questo strumento era un albero e l’ingegno e la sensibilità dell’uomo gli ha donato la voce. Ci eravamo seduti in un angolino per non far sentire il nostro odore di camoscio che orgogliosamente portavamo addosso. Vedere tante persone e sentire parlare tante persone, ci pareva strano dopo una giornata passata nei silenzi delle crode. Ormai stavamo arrivando all’ultima frase della nostra escursione e prima di chiudere il libro, dovevamo brindare sbattendo i boccali sul tavolo prima di bere, così come la leggenda vuole, per rendere partecipi anche le persone che hanno reso possibile il nostro brindisi, iniziando dai gestori del rifugio e a chi ha portato il succo di luppolo. Tra un sorriso una birra e una chiacchiera, uscivamo dalla selvaggia Val Cimoliana e ci approntavamo al rientro.
Cartina tabacco N 021
Redatto con cura da Ivan Ursella
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