Tante volte ho sentito dire da varie persone: “ La montagna mi parla” confesso che quest’affermazione mi ha fatto sempre ridere, che tu salga o meno sulla cima alla montagna non cambia molto, lei è lì immobile, impassibile e indifferente, può capitare però di essere convinti e preparati a salire una cima e proprio all’ultimo momento salirne un’ altra…
Caricato il mio zaino ed entrato dentro l’abitacolo dell’auto di Roberto ci eravamo diretti subito verso Cimolais, lungo la strada avevamo parlato più che altro della salita che ci attendeva, volevamo salire il Cornaget, montagna selvaggia e misteriosa a detta di molti. Dalle notizie che avevamo era una montagna poco frequentata dagli escursionisti, quindi faceva giusto al caso nostro, percepivamo già il sapore dell’avventura, ma non avevamo fatto ancora il conto con la nostra mente nomade, perché arrivati al bivio di Claut avevo rallentato la corsa anzi, mi ero quasi fermato volgendo lo sguardo verso il Duranno e Cima Preti. Poi voltandomi verso Roberto esordii dicendo: e se andassimo su Cima Laste? Poi ci fu qualche scambio di battute, finche arrivò l’ultima mia frase: “abbiamo ancora qualche metro di aiuola, a destra per il Cornaget invece dritti per Cima Laste”. Alche Roberto sentenziò: “ dobbiamo fare Cima Laste e Cima Laste sia”. Con le idee finalmente chiare e con l’animo in pace, schiacciai l’acceleratore per arrivare il più presto possibile verso Cimolais e svoltare a destra per entrare in quella magica val Cimoliana. Giunti a Pian de Thaina o più comunemente conosciuto come Pian Fontana, avevamo lasciato l’auto sotto un bel faggio e raccolti gli zaini eravamo partiti belli spediti verso il torrente Cimoliana guadandolo sulle pietre più grosse e asciutte per evitare un gelido bagnetto mattutino. Giunti sulla sponda opposta avanzavamo in piacevole pendenza guidati dai colori bianco rossi del segna via cai n’ 390, che ci fecero inoltrare in un bel bosco umido e rigoglioso di faggi ad altissimo fusto, per poi attraversare la sua vivida ferita con centinaia di alberi capovolti e ribaltati con le radici al posto dei rami. Usciti da questo scempio e attraversati svariati ruscelli arrivavamo a una bella piana dove innanzi a noi, la sù in alto si pavoneggiava Cima Preti. Vista da questa insolita angolazione, con il sole che la indorava facendola brillare, la sensazione era che si mettesse in mostra solo per noi. Oltrepassavamo un altro bel e rumoroso ruscello entrando nell’incantata Val Frassin (non serve che descriva il paesaggio boschivo circostante, perché già il nome di questa valle rende bene l’idea da che cosa eravamo attorniati…). Sul bordo del sentiero un enorme monumento faceva belle mostra di sé, era un faggio molto largo di circonferenza e dai bitorzoli che aveva lungo il tronco, sicuramente non aveva avuto una vita facile. Sembrava un grande ulivo di quelli che crescono al sud, una sosta per rendergli omaggio era d’obbligo. In una piccola radura sopra di noi finalmente faceva capolino il piccolo tetto della casera Laghet de sote oppure dei Frassin. Era una casera mezza diroccata con grosse spaccature nei muri e buche nel tetto, era un dispiacere vederla ridotta in quegli stati in un luogo così bello, davanti a noi si stagliavano verso l’alto la cima Sella, cima delle Monache e cima dei Frassin, io e Roberto eravamo ammaliati da quello che avevamo davanti a noi. Dopo una breve pausa riprendevamo il cammino adesso un po’ più ripido rispetto a quello che avevamo appena percorso, eravamo in un ambiente più aperto e con lo sguardo potevamo spaziare in tutte le direzioni. Sarà stato per quelle distrazioni montuose che avevamo attorno o forse perché avevamo i muscoli caldi, ma in poco tempo avevamo percorso lo spazio che divideva la prima casera con casera Laghet de sora.
Mentre arrivavamo nel pianoro della casera Laghet de Sora, un gruppo di stambecchi pascolava con tutta tranquillità a pochi metri dal nostro passaggio, uno stambecco solitario un po’ più lontano dagli altri, era fermo sul nostro sentiero, ci fissava immobile e impassibile ogni tanto muoveva la bocca, probabilmente per ruminare il pasto fatto poco prima. Forse quel movimento delle labbra mi fece immaginare che lo stambecco solitario non era altro che lo Spirito del vecchio malgaro con il viso invecchiato dal sole e dalla fatica e i folti baffi neri che nascondevano il movimento delle labbra anche quando parlava. Il suo sguardo era severo e sospettoso, non era abituato a stare con la gente, parlava poco ma osservava molto, i suoi occhi vispi ma languidi andavano dal celeste pallido al grigio chiaro, colore che mi faceva ricordare un lago alpino in inverno, profonde rughe erano di contorno al suo volto, trasmetteva una profonda libertà. Con passi lenti senza fare movimenti bruschi per non spaventarlo ci avvicinavamo a lui, finche lo stambecco emise un sonoro fischio e con quattro salti si allontanò da noi raggiungendo i suoi simili. Noi con la bocca aperta per la velocità dell’animale, entravamo in casera lasciando gli zaini sulla panchina esterna. Una famiglia con un bimbo piccolo ci diede il ben venuto, avevano trascorso la notte lì in casera, il giorno prima erano saliti su cima Sella e come premio si erano concessi un bivacco in casera. Il piccolo scorrazzava da tutte le parti, si percepiva da lontano che aveva preso confidenza con il luogo e che ci stava bene. Senza chiedercelo la giovane mamma ci porse un bicchiere di caffe, l’aroma si era profuso in tutta la casera rendendo la nostra sosta ancora più piacevole. Dopo quattro chiacchiere ringraziamenti e saluti ripartivamo per la nostra meta. Dovevamo continuare per un breve tratto a seguire sempre lo stesso sentiero, per poi abbandonarlo e iniziare a seguire un sentiero un po’ meno evidente per la Valle del Drap, il paesaggio che dovevamo attraversare era davvero da fiaba, un avvallamento dietro l’altro, svariate doline e molte grandi pietre mi facevano ricordare l’Irlanda era un posto davvero speciale. Però dovevamo stare attenti perché ad un certo punto dovevamo abbandonare il sentiero per prendere una traccia sulla destra e addentrarci in un pendio disseminato di grandi pietre e ghiaie quasi alla base delle pareti dell’enorme mole che componeva la nostra cima. Finalmente individuavamo la traccia sulla destra e iniziavamo a inerpicarci sul ripido e scosceso pendio, pregustavamo già tra le mani il calore della roccia che a breve avremmo toccato, ma non sapevamo ancora che di lì a poco sarebbe arrivato qualcosa a tentar di rovinarci i nostri piani facendoci desistere al nostro intento di salita alla cima Laste. Dal cielo iniziarono ad abbassarsi delle enormi nuvole grigie, a una velocità tale da nascondere la nostra meta in un baleno, non sapevamo cosa fare, continuare o rientrare, vinse però la vocina: “ andiamo avanti ancora un po’”. Avevamo già fatto molta strada senza segni e senza tracce, perdere l’esile via era molto facile, solamente qualche rarissimo omino stava lì ad indicarci che eravamo sulla strada giusta, ma più ci alzavamo e meno tracce trovavamo. Iniziavamo a demoralizzarci, rarissime tracce da individuare e la fitta nebbia a rendere il tutto più complicato, finche aggirando uno spuntone roccioso trovavamo davanti a noi due canaloni, il primo composto da enormi pietre ma tutto sommato non molto ripido, il secondo a qualche metro dal primo era molto più largo e molto più ripido. Nessuna traccia ci indicava quale prendere, io e Roberto iniziavamo a imprecare contro quella maledetta nebbia, ci balenò ancora l’idea di rientrare, ma la vocina si fece di nuovo sentire “andiamo avanti ancora un po’, per il canale più ripido”. Senza tentennamenti e tutti e due d’accordo iniziavamo a salire il secondo ripido canale. Sembrava andassimo avanti alla cieca finche un urlo di Roberto mi fece avanzare velocemente verso di lui, Roberto aveva individuato tra la sabbia una parvenza di traccia lasciata da uno scarpone. A questo punto sapevamo di essere giusti e riprendemmo la salita con nuovo vigore, più salivamo il ghiaione e più soffiava il vento, una bella soffiata aprì una breccia di luce sopra di noi, questa volta urlai io: “ecco una forcella, arriviamo fino lì e poi decidiamo cosa fare”. Sbucati sulla piccola forcella, non avevamo parole, davanti a noi un limpido sole illuminava per chilometri fino alle Dolomiti, era una vista fiabesca, alle nostre spalle invece un inquietante muro di nebbia. Il Duranno, Cima Preti, il Tridente e Cima Laste sembrava avessero solo il versante nord, quello sud non esisteva, era ingoiato dalle nebbie. Io e Roberto ci guardavamo con intesa, guai se fossimo ritornati indietro, avremmo perso un occasione per ammirare il paradiso che avevamo davanti. Questa era la riprova che le cose belle bisogna davvero sudarsele delle volte rischiando un po’, ovviamente nei limiti della sicurezza. Seguendo un esile cengia con vari saliscendi e numerose forcellette ci portavamo alla base della via di salita, con attenzione dovevamo passare dei salti in leggera arrampicata, leggera perché la roccia era molto friabile e abbastanza esposta. Una freccia rossa ci indicava la via da seguire un ulteriore prova che eravamo sulla via giusta. Per roccette, balze erbose e qualche facile placca sbucavamo sulla cresta di cima Laste, qualche metro di esposta cresta verso destra e un’altra malagevole ma breve risalita ed eravamo finalmente nel punto più alto, avevamo raggiunto la vetta di Cima Laste. Dopo esserci stretti le mani e congratulati l’un l’altro, ci sedevamo sull’esile cresta a rilassarci un attimo, solo che non riuscivamo a stare fermi perché eravamo avidi di panorama e quindi voltavamo lo sguardo da una parte all’altra. La vista si perdeva oltre le Dolomiti, ma lo scenario più inquietante lo avevamo alle nostre spalle, il grigio nebbione era a qualche metro da noi, immobile, aveva nascosto e avvolto tutti i versanti a sud dei monti vicini, lo spettacolo era davvero emozionante e spettrale al tempo stesso. Tra le pietre del omino di vetta trovavamo un contenitore per occhiali, con dentro dei fogli e una matita, l’ultima firma era abbastanza lontana segno questo che era una cima poco frequentata, poste le nostre firme e rimesso bene tra le pietre il porta occhiali, raccoglievamo lo zaino e iniziavamo a percorrere la cresta dal lato che eravamo arrivati, solo che invece di scendere subito percorrevamo tutta la cresta per salire una cima un pochino più bassa di quella appena salita. Qualche foto e poi giù per il ripido e friabile versante, andare fuori traccia era molto facile, quindi dovevamo procedere con calma per orientarci bene. Senza nemmeno accorgercene eravamo di nuovo alla forcella a fianco del Tridente adesso dovevamo buttarci nel canalone ghiaioso coperto dalla fitta nebbia e percorrerlo ripidamente in discesa fermandoci poco prima dei salti alla base delle rocce, per prendere la traccia sulla sinistra che dolcemente ci avrebbe portato alla casera Laghet de Sora. Giunti senza particolari problemi in casera, ci sedevamo su una panca all’esterno, eravamo proprio difronte alle alte Monache e fantasticavamo tra di noi sul fatto di rimanere a dormire in casera e l’indomani salire un’altra cima e il giorno dopo un’altra ancora e così via. Continuavamo a parlare di queste fantasie mentre avevamo ripreso sulle spalle lo zaino e iniziavamo a scendere per arrivare a casa dalle nostre dolci metà prima che facesse buio, per non sentirle per l’ennesima volta. Era stata una giornata speciale, fin dalle prime ore del mattino, eravamo convinti di salire una cima e ne avevamo salita un’altra, adesso ci mancava ancora una cosa da fare prima di rientrare a casa, fermarsi a brindare nella mitica osteria k2 di Claut dove ormai tutti ci conoscono e ci fanno sentire accolti come fossimo dei loro, come fossimo a casa.
Cartina Tabacco 021
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