Erano le tre esatte del mattino quando la mia sveglia si mise a squillare, 20 minuti dopo stavo caricando lo zaino in auto, ero euforico per la giornata che mi attendeva. Accesa l’auto mi diressi verso Buja a prendere Roberto e poi verso Trasaghis a prendere Dino. A quell’ ora in strada non c’era nessuno e il cielo stellato era di buon auspicio per la giornata, senza quasi accorgercene dei chilometri percorsi, parcheggiavamo l’auto in val Saisera. Un fresco profumo di resina misto a un buon profumo di funghi amalgamati assieme a una frizzante brezza ci davano il benvenuto appena usciti dall’auto. Senza perdere troppo tempo ma soprattutto per l’aria fresca ci siamo subito incamminati verso la nostra meta addentrandoci in un bel bosco e innalzandoci piacevolmente, negli spazi vuoti tra una chioma di un albero e l’altro la nostra meta ci sbirciava in silenzio, il sole si stava svegliando e i suoi raggi la illuminavano donandole un aspetto quasi dolce, più e più volte ci fermavamo ad ammirare ammutoliti questo spettacolo. Lasciato a destra il bivio per il grande Nabois abbiamo continuato a salire verso il rifugio Pellarini pregustandoci il sapore del caffè che avremmo di sicuro sorseggiato una volta raggiunto, eravamo indecisi se solo un caffè oppure anche una fetta magari di strudel, però con nostro grande stupore un cartello con scritto: “per problemi tecnici oggi il rifugio è chiuso”, dava fine alla nostra incertezza su cosa degustare. Vicino alla porta di ingresso, su un tavolo erano stati messi dei prodotti di prima necessita, con a fianco un altro cartello che diceva più o meno così: prendi quello che vuoi ma lascia quello che pensi sia giusto, una casettina di fianco al cartello conteneva una pietra e sotto di essa c’erano dei soldi di carta. Pensai subito al bel gesto da parte dei gestori del rifugio e mi augurai che gli escursionisti si fossero comportati ricambiando in moneta la cortesia ricevuta. Dopo aver rabboccato le borracce  nel ruscello a fianco il rifugio, siamo ripartiti verso destra continuando a innalzarci piacevolmente tra eriche, piante di mirtillo e pino mugo, alla nostra sinistra tutta la grande mole della parete nord dello Jof Fuart, enormi lingue di neve parzialmente ghiacciata stavano alla base dei canaloni in una lotta senza possibilità di vittoria contro il sole estivo. In prossimità di un omino abbiamo attraversato lo spazio che ci separava dalla grande parete, puntando dopo aver individuato la gola giusta, la nostra via di salita. Difronte a noi in alto qualche metro, siamo riusciti ad individuare uno sbiadito bollo rosso, eravamo sulla via giusta, dovevamo solo attraversare la ripida lingua di neve. Con sincerità, passare questo tratto pendente e scivoloso non era stato molto simpatico, soprattutto giunti sulla sponda opposta risalire il tratto franoso fino al bollo sbiadito, il tutto condito da continue scariche di pietre mista neve marcia che scendevano con fragore dai canali. A questo punto era d’obbligo indossare il casco e seguire una stretta ed esposta cengia che ci avrebbe fatto aggirare un costone depositandoci nella nostra gola, la gola nord est dello Jof Fuart, volevamo rendere omaggio a questo Colosso salendolo da una via poco frequentata, rispetto alla via più comune posta sull’altra parete a sud. Dentro la gola la temperatura era decisamente più bassa, anche la luce, visto che non penetrava il sole era diversa, da dove ci trovavamo iniziavano le attrezzature, cavi di acciaio, qualche staffa di ferro e vari pioli di legno ci avrebbero aiutato nella progressione verso la vetta. Sapevamo che  le difficoltà maggiori si aggiravano sul terzo grado, ma la cosa più eccitante era che saremmo saliti su una via percorsa per la prima volta da Kugi assieme alle guide Oitzinger e Komac nel 1901. Iniziammo subito a salire innalzandoci rapidamente tra placche e enormi sassi incastonati tra le pareti, a volte strette da toccarle allargando le mani, a volte larghe qualche metro, in breve tempo avevamo superato in altezza il monte Lussari alle nostre spalle. Guardando in alto non capivamo dove finisse la gola e dove saremmo usciti, era troppo in su per riuscire a scorgere l’uscita. Lo squarcio di vista tra le due pareti alle nostre spalle era grandioso, molte volte mi perdevo a guardarlo rallentando anche i miei compagni che gentilmente brontolavano dicendomi che avrei avuto tutto il tempo per rifarmi gli occhi una volta usciti dalla gola e raggiunta la cima. Superata anche la famosa lama, a detta di qualcuno la chiave di questa via e superato ancora qualche breve tratto attrezzato finalmente uscivamo dalla gola immettendoci sulla “cengia degli Dei”. Avevamo messo finalmente i piedi sulla “via Eterna”, chi avesse avuto la fortuna di mettere i piedi su questa cengia,  avrebbe capito subito che non sarebbe stato possibile darle un altro nome, era qualcosa di meraviglioso, probabilmente era anche il suo nome ad aggiungerle fascino, non voglio descriverla, la lascio nel vostro immaginario augurandovi che possiate un giorno percorrerla e come me rimanere senza fiato dall’emozione provata. Mai come in questo momento ero riuscito a interpretare le parole che scrisse Kugi: “Ho letto una volta che gli antichi Germani usavano aprire varchi larghi lungo le creste selvose, dedicati agli Dei, perché questi vi potessero passare fulminei, senza impedimenti. A quelle strade degli Dei penso sempre quando sono sulle cenge”.  

In un angolo della cengia all’ombra, una piccola lastra di neve parzialmente ghiacciata resisteva alla calura, mi tolsi subito lo zaino e mi riempii le mani di neve passandola poi sui polsi e sulla fronte, non contento mi tolsi il caschetto e ci misi dentro un po’ neve rimettendolo poi sulla testa, Roberto un po’ più in là se la stava ridendo gustandosi le mie bizzarre scenette. Ci mancava da risalire l’ultima parte in divertente arrampicata, per poi deviare a sinistra per una cengia ad entrare sulla via normale che a destra ci avrebbe a strette svolte portato in cima. Quello che abbiamo visto da la su, complice anche la giornata perfetta, era qualcosa di eccezionale, qualcosa non facile da spiegare, potrei paragonarlo a quando dopo una nuotata si riemerge dall’acqua cercando  di respirare e l’aria fresca entra dentro di noi, oppure quando assetati e senza acqua si incontra una sorgente, in quel momento si capisce quanto bisogno abbiamo della natura. Dino trasmetteva la nostra posizione via radio, Roberto faceva fotografie, arrivava qualche altro escursionista, io seduto su una pietra osservavo il tutto, forse come un uccello che planava nel vento senza una destinazione in particolare. L’attimo era un respiro che si fondeva con tutto quello che ci circondava, non riuscivo a tenere gli occhi fermi, ero estasiato sentivo i miei battiti che iniziavano a rallentare e l’emozione iniziava a pervadermi. Quando poco dopo arrivati in cima, un escursionista si chinò e diede un delicato bacio alla statua della Madonna,  mi sentii scendere una lacrima dagli occhi e mi allontanai per quanto possibile dai miei compagni perché non mi vedessero così emozionato, provavo un senso di estrema gratitudine per quello che stavo vivendo. L’ora passata sulla cima era stata come il tempo di un battito di ciglia. Mentre ci preparavamo per la discesa una signora Slovena estrasse dallo zaino una bottiglia di grappa con dentro una radice di genziana, ce la porse e noi dopo averne bevuta un po’  la passavamo all’escursionista al nostro fianco. Escursionisti mai visti prima, di lingue differenti e sconosciute che bevevano come dei fratelli dalla stessa bottiglia: questa è la magia della Condivisione, della Bellezza e della Pace che solo un’impegnativa uscita in montagna riesce a donare, rendendoci consapevoli di uno dei più alti valori di essere umani. Era arrivata purtroppo l’ora di scendere, saluti in varie lingue e ultimo sguardo attorno, poi giù per la via normale al rifugio Corsi. L’attenzione si era abbassata di livello, non del tutto però, perché anche sulla via normale c’era qualche punto esposto, tra chiacchiere e discorsi più o meno seri, arrivavamo nel pianoro del rifugio Corsi, che tristezza anche questo rifugio chiuso per futuro restauro. E’ un posto così bello che merita un rifugio come punto di appoggio per le molteplici escursioni che si possono fare in zona. Nelle adiacenze scorreva un ruscello di acqua gelida, finalmente potevamo riempire le nostre borracce ormai asciutte da un po’ e darci una lavata, il tutto sotto l’occhio vigile e attonito di un gruppo di stambecchi assieme  ai loro velocissimi e impavidi piccoli. Per scendere giù in malga Grantagar, avevamo preso il sentiero dei tedeschi, un bel sentiero che si svolgeva tutto fino alla malga prevalentemente nel bosco e con vari passaggi di provvidenziali ruscelli. Giunti in malga Grantagar, la figlia del proprietario ci accolse con un bellissimo sorriso mettendoci subito a nostro agio, le mucche nel frattempo si avviavano in fila indiana per la mungitura, ci sembrava che il tempo andasse avanti più lentamente, scandito dal movimento ondulatorio e pacifico delle loro pancione, dopo tutto eravamo ancora lontani dal casino della valle più sotto. Ancora  qualche giro di birra per poi  ricominciare a scendere verso il basso con lo sguardo lassù in alto, sulle creste, dove eravamo qualche ora prima. Adesso puzzando come camosci ma con la felicità stampata in faccia, stavamo scendendo verso l’auto, persi nelle nostre storie e nel nostro tempo,  finalmente dopo un interminabile discesa, l’ultima curva  e  davanti a noi come per magia si aprì lo spiazzo con la nostra auto parcheggiata la sera prima…

Cartina Tabacco N. 019

dislivello in salita circa m. 1700 e in discesa… altrettanti….

Redatto da Ivan Ursella

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